Il 3 gennaio del 1925 Mussolini terrà un discorso in Parlamento che cambierà per sempre le sorti del nostro Paese. Il duce si assumerà la responsabilità morale e politica dell’omicidio Matteotti. Questa fase passerà alla storia come “svolta autoritaria” del regime, che da partito di maggioranza diventerà l’unico partito esistente in Italia.
Le “leggi fascistissime” segnarono uno stato di emergenza costante e una condizione psicologica di generale allarmismo nella popolazione italiana. I partiti diversi dal Partito nazionale fascista furono posti fuori legge; venne istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, tramite il quale venne reintrodotta la pena di morte[1], con lo scopo di mettere a tacere l’antifascismo. La pena di morte era rivolta agli attentati contro il capo del Governo e la famiglia reale, oltre che i delitti contro la sicurezza dello Stato.
Nasceva così il reato politico, infatti veniva criminalizzato il pensiero politico differente dal pensiero politico guida del Paese, in quanto poteva costituire un elemento di disturbo per la sicurezza dello Stato. Inoltre, venne istituito il confino di polizia per reati comuni e politici.
La teoria fascista sul dissenso doveva avere un risvolto pratico: la strategia del consenso al fascismo doveva basarsi su un’omogeneizzazione politica e sociale della popolazione italiana, limitando il più possibile la libertà di pensiero e di opinione. Tutto ciò che differiva dall’ideologia di riferimento doveva essere eliminato, stroncato sul nascere, evitando sistematicamente la creazione di eventuali cellule politiche antifasciste nel territorio italiano.
Il confino politico fu uno strumento essenziale nel combattere il dissenso al regime, però diversamente da come si potrebbe pensare, non fu un’istituzione inventata dal Duce, ma è un lascito del precedente sistema politico-istituzionale dell’età liberale[2]. A causa di attentati rivolti alla figura di Mussolini, il duce decise di perfezionare il domicilio coatto di matrice liberale in confino di polizia. Il confino politico era una misura preventiva rivolta a soggetti sospetti o sovversivi, che potevano costituire una minaccia all’ordine pubblico. Successivamente diventerà uno strumento politico in grado di legittimare l’allontanamento dal contesto sociale di individui che potevano essere, realmente o meno, un pericolo. Il diritto penale garantiva di essere puniti per fatti oggettivi; invece, le misure di polizia si basavano su indizi di presunta pericolosità e su giudizi, minando la libertà individuale[3].
In quali modalità veniva effettuato il confino?
Il primo passo verso il sospettato politico era l’arresto, accompagnato da violenza fisica e morale. L’arrestato rimaneva negli istituti carcerari di polizia in attesa del trasferimento o “traduzione” nel luogo dove scontare il confino conferitogli dalla Commissione provinciale. La “traduzione” poteva avere due modalità di azione, quella “ordinaria” e quella “straordinaria”. La prima prevedeva un viaggio a tappe di molte ore mediante vettura cellulare o carrozza carceraria. La seconda avveniva tramite un viaggio diretto in treno di terza classe, il cui biglietto, sia quello dei carabinieri e sia quello del condannato erano pagati dallo stesso[4].
Un organismo centrale nell’organizzazione dei confinati era il Casellario politico centrale, una struttura di polizia preventiva dipendente dal Ministero dell’Interno, che si occupava della schedatura dei sospettati. Nei diversi fascicoli vi erano informazioni personali del sovversivo, come la sua ideologia politica, le sue caratteristiche fisiche, il lavoro che svolgeva, i contatti e le relazioni interpersonali. L’opera che maggiormente ci racconta l’esperienza del confino è quella di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli. Levi diventa testimonianza attiva di una civiltà arcaica, oppressa, succube dei poteri locali.
“[…] La Lucania che è in ciascuno di noi, forza vitale pronta a diventare forma, vita, istituzioni, in lotta con le istituzioni paterne e padrone, e, nella loro pretesa di realtà esclusiva, passate e morte[5].”
Una civiltà contadina che ha tanto da offrire a Levi, infatti l’autore parla di un viaggio personale alla scoperta di sé:
“Per questo, il Cristo si è fermato a Eboli fu dapprima esperienza, e pittura e poesia, e poi teoria e gioia di verità, per diventare infine e apertamente racconto…[6]”
Un’altra opera che vorrei citare è La tregua” di Primo Levi.
Italo Calvino definisce questo libro come il libro del ritorno, l’odissea dell’Europa tra guerra e pace, una storia movimentata e variopinta d’una non più sperata primavera di libertà.
Il viaggio di Levi è un cammino di speranza, di coraggio e di ritorno alla libertà verso la realtà ordinaria.
“Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finché suonava breve sommesso
Il comando dell’alba:
«Wstawać»
E si spezzava in petto il cuore.
Ora abbiamo ritrovato la casa,
il nostro ventre è sazio,
abbiamo finito di raccontare.
È tempo. Presto udremo ancora
Il comando straniero:
«Wstawać»”
11 gennaio 1946.
Il tornare a casa, il mangiare, il raccontare sono bisogni primari dell’autore, necessari alla propria esistenza taciuta per troppo tempo.
La forza dirompente delle parole riecheggia nel bisogno di raccontare la verità; il tempo della libertà fuori dal tempo dell’oppressione riempie le pagine bianche, sempre più saldamente si succedono i pensieri e le emozioni nel tempo assopiti, nascosti ostinatamente nella mente e nel cuore.
Il dissenso al regime fascista ha dato vita a questi due capolavori della letteratura italiana, che sono testimonianze eterne del male assoluto e della prevaricazione dell’uomo sull’uomo.
Alessia Valente
[1] La pena di morte era stata abolita dal codice Zanardelli nel 1889, durante il governo di Crispi.
[2] Camilla Poesio, Il confino fascista: l’arma silenziosa del regime, p. 10, editori Laterza, Bari, 2011.
[3] Ivi, pp. 16-17.
[4] Ivi, pp. 55-56.
[5] Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, p. XVIII della lettera dell’autore all’editore, Einaudi, 2014.
[6] Ivi, p. XIX.