Dissento. Dunque sono.
Potrebbe essere una inversione di paradigma (per la verità, non del tutto originale, considerata la declinazione di tantissime forme, rispetto al più noto “Cogito. Ergo sum”), una rivalsa sociale, corale, ma anche individuale, la porta privilegiata per iniziare un viaggio autentico dentro sé stessi.
Dentro perché l’apparato, l’intorno, è predisposto in modo analgesico, in modo cautelativo, ma fin troppo strumentale e con obiettivi di produzione, figli di quel fluire e di quel consumo-figlio del tempo in cui il destino ci ha avventurati.
A tal punto, da costringerci a non investire più sulla nostra risorsa prima, quella dell’esperienza del/con il dolore.
Ne scrive in un saggio che è un manifesto totale, a parere di chi scrive, dal titolo “La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite” (Einaudi), il filosofo e docente sudcoreano dell’Università di Berlino, Byung-Chul Han.
«Il nostro rapporto con il dolore rivela in quale società viviamo (Schmerz). Oggi imperversa, ovunque, un’algofobia, una paura generalizzata del dolore (…) che ha come conseguenza un’anestesia permanente. Si evita qualsiasi circostanza dolorosa, persino le pene d’amore sono diventate sospette; si estende nell’ambito sociale e interessa anche la politica. Aumentano la spinta al conformismo e la pressione del consenso(!)». Ragionando così, afferma Han: «La politica s’installa in un’area palliativa e smarrisce qualsiasi vitalità; la “mancanza di alternative” è un analgesico politico. (…) La politica palliativa non ha il coraggio del dolore. Quindi perpetua “l’Uguale”. Noi viviamo in una società che tenta di sbarazzarsi di tutto ciò che è negativo; il dolore è negatività per antonomasia. La società palliativa coincide con la spinta alla “prestazione”. Il dolore viene interpretato come un segno di debolezza, qualcosa da nascondere o da eliminare in nome dell’ottimizzazione. Non è compatibile con la performance. La passività della sofferenza non ha alcun posto e il dolore viene privato di qualsiasi possibilità di espressione: viene condannato a tacere. (…) Non lo si può animare, verbalizzare».
Una forma di dissenso sarebbe salvifica: «Ci si scorda che il dolore purifica, emana un effetto catartico e alla cultura della compiacenza manca la possibilità della catarsi. Tale formula ha svariate origini, rimanda prima di tutto, alla economicizzazione e alla mercificazione della cultura. (…) I beni di consumo si presentano come opere d’arte e la produzione immateriale s’impossessa delle modalità della pratica artistica. Deve essere creativa e, in quanto tale, consente però solo variazioni dell’Uguale. Non ha accesso al completamente Altro. Le manca la negatività della rottura, che fa male».
Ma se è vero che l’arte deve saper “ferire” (creare una crepa da cui far passare la luce, per dirla con i fratelli Cohen), «ella è proprio a casa nell’estraneo. L’estraneità caratterizza l’aura dell’opera d’arte. Il dolore è lo strappo, attraverso il quale fa breccia il completamente Altro, e mette l’arte in condizione di offrire una narrazione “antagonista” rispetto all’ordine vigente».
Una linea guida pedagogica di dissenso, insomma! «Il dominio continua a intrattenere una relazione con il dolore. Nella società disciplinare esso ha ancora un ruolo costruttivo, modella l’essere umano ma non viene messo in mostra, limitato a spazi chiusi. La nuova formula di dominio recita: Sii felice! (…) Anche l’assoluta volontà di combatterlo, fa dimenticare come esso sia “mediato”. E l’assoluta medicalizzazione impedisce che esso si faccia linguaggio, critica. Sottrae al dolore il suo carattere oggettivo, rendendo la società immune alla critica. L’anestesia permanente impedisce la scoperta e la riflessione, opprime la verità».
Una strategia che evita la rivoluzione, quindi il dissenso. E qual è l’antidoto a quest’ultimo? «La stanchezza dell’Io»- riflette Han, che continua: «Il dispositivo della felicità reifica la felicità, che è più della somma dei sentimenti positivi, che si sottrae alla logica della ottimizzazione e si caratterizza dalla indisponibilità. La vera felicità è possibile solo se infranta! La profonda felicità resta inaccessibile a chi non è aperto al dolore». E infine: «Il dolore rientra probabilmente tra le cose che non scompaiono, modifica solo le proprie manifestazioni. Ed è “verità divenuta carne”, il dolore è un affidabile criterio di verità, uno “strumento di discriminazione dell’autentico e dell’inautentico”. (…) Il dolore è vincolo, è differenza, è realtà, contorna il sé, anima la fantasia e apre un’altra visibilità». In sintesi: «Senza dolore non abbiamo né amato, né vissuto». Si potrebbe aggiungere un monito: dissentiamo!
Virginia Cortese