Patto fatto. Fatto patto. Il racconto di Antigone dovrà continuare a passare di bocca in bocca, di generazione in generazione, di popolo in popolo, di tempo in tempo. Come il vento, dovrà continuare a viaggiare e con la sua forza inarrestabile bucare l’oblio, scuotere la memoria, soffiare l’immortalità. Perché Antigone continui a vivere, perché il suo coraggio faccia scuola sempre, perché la sua ribellione sia da insegnamento, perché la giustizia prevalga sopra ogni cosa e perché la verità non venga mai negata.
A quasi mille metri di altezza, ai piedi di un’antica Torre normanna del XII secolo[1], abbiamo ascoltato «la storia della ragazzina che ruppe la legge e seppellì suo fratello». È un pomeriggio d’estate, la canicola piega qualsiasi volontà, ma la forza di partecipare ad una nuova esperienza ha vinto ogni resistenza. Con la mia amica di cammini culturali, ci siamo avviate lungo il ripido sentiero che tra rovine ed echi lontani, ci ha condotto su una piccola piana perimetrata da pietre antiche, un tempo mura di una roccaforte longobarda. Da quel palcoscenico, nudo e pazzescamente bello, mentre il sole si avvia a scollinare colorando i nostri profili, l’attrice[2], preso l’abbrivio nel parlare, comincia a raccontare:
Questa è la tragedia
della ragazzina
che un Re
seppellì viva nella caverna buia.
Antigone, la figlia ribelle di Edipo e Giocasta, viene murata viva da Creonte, sovrano di Tebe, per aver disobbedito al suo ordine di dare sepoltura al fratello Polinice, rimasto vittima nella battaglia contro l’altro fratello, Eteocle, morto anch’esso. È questa la storia di una donna dissenziente, che si è opposta al potere degli uomini e che ha affermato il proprio volere scegliendo la morte. Spesso l’epilogo delle donne che manifestano il proprio dissenso. La rappresentazione teatrale[3], scarna nel suo allestimento e non per questo meno efficace, si è conclusa con un patto tra l’attrice e il pubblico. Che si continui a parlare di Antigone, che non la si faccia morire ancora con il silenzio, che si sfidino l’indifferenza e le imposizioni, che si abbia il coraggio di ribellarsi.
Parola chiave del numero 110 della rivista è: dissenso.
La vicenda dell’eroina del dissenso politico ha una duplice funzione narrativa. Da un lato introdurre il tema oggetto della nuova uscita della rivista, dall’altro avviare una più ampia riflessione sulla valenza e sul significato del dissenso oggi come ieri. Nella pubblicazione precedente ci siamo, al contrario, posti la questione del consenso e della sua spasmodica ricerca, di quanto oggi l’uso della tecnologia comunicativa ci imponga determinate regole di costume per continuare ad apparire. Esserci, esserci sempre al fine di generare una moltiplicazione del proprio “io” da cui accrescere oltremisura la propria autostima. Ma consenso inteso anche quale forma di appoggio a chi esercita potere, come risorsa necessaria per la politica, come atteggiamento culturale di acquiescenza. E dunque ci siamo domandati: c’è ancora qualcuno capace di esprimere il proprio dissenso? E quale forma assume, nei vari linguaggi, il dissenso?
E tutti direbbero che il mio atto è bello, se la paura non li obbligassero al silenzio.
La paura chiude la bocca. Paralizza. Ma può anche generare nuove strategie, tramutarsi in emozione positiva. In questo caso la paura consente di misurarsi con il rischio, diventa uno stimolo alla ricerca della definizione della vita. Spinge a conoscersi in profondità e a riconsiderare l’altro e a intessere relazioni nuove. Spinge a manifestare il proprio pensiero e a mettere in pratica le proprie scelte. Medea, ad esempio (per rimanere nel campo della mitologia classica), raro esempio di donna intellettualmente indipendente, era considerata una strega per il suo atteggiamento critico nei confronti di una società fatta di convenzioni immobili. Euripide le farà dire: «prestando agli ignoranti nuovi oggetti di sapere, tu non apparirai sapiente ma inutile, e d’altra parte, se sarai considerato superiore a coloro che sembrano conoscere molte cose, diventerai sgradito alla città. Perché io sono sapiente, questa è la mia sorte: alcuni mi odiano, ad altri appaio ostile».
La liturgia del dissenso nutre invece la democrazia. È parte del processo democratico. Chi esprime sé stesso esercita la propria libertà. Come Medea, che agli occhi dei saccenti appare solo una maga, e come Antigone, che pare essere una disobbediente, una ribelle appunto. La libertà intesa quale autodisciplina, non come «libertà che s’inebria di sé stessa», come scrisse un’altra grande intellettuale, Oriana Fallaci, nell’autointervista fatta a sé stessa e pubblicata da Rizzoli nel 2004. Il concetto di libertà a cui si riferisce è quello trasmessole da Platone, che la giornalista toscana manda a memoria e recita come il Padre Nostro.
«Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati tiranni. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia.»
Contro la tirannia, dunque, la parola diventa strumento di dissenso. Ed è interessante esplorare i vari linguaggi in cui il dissenso viene praticato, le varie forme che assume, le sue sfumature. Nell’arte figurativa come in quella poetica, il dissenso può diventare il di-senso, come suggerisce il critico d’arte Merisabell Calitri nella rubrica “osservare”, ossia si traduce nell’atto di restituire dignità e significato all’opera stessa. Il dissenso è l’andare contro corrente, come l’associazione di un piccolo comune lucano in via di spopolamento, Armento, che ha scelto di rimanere esprimendo il proprio rifiuto ad abbandonare il proprio borgo. Il dissenso come pratica quotidiana contro l’anestesia permanente della società, come suggerito dal filosofo e docente sudcoreano Byung-Chul Han. Il dissenso ai regimi autoritari che ha dato vita ad importanti e immortali pagine della letteratura universale. E poi quello espresso dalla musica e dagli artisti della parola, «più di una volta sei andato avanti dritto dritto sparato contro un muro. Ma ti sei fatto ancora più male aspettando qualcuno» (Elisa e Francesco De Gregori, Quelli che restano).
Potevo io, per paura di un uomo, dell’arroganza di un uomo, potevo venire meno a queste leggi? (…) colpita da leggi ingiuste, senza pianto di amici, io vado verso l’oscurità di un carcere che sarà la mia tomba, e non starò né con i vivi né con i morti.
Dirà la povera Antigone scegliendo di rispettare la sacralità della legge divina contro l’empietà della legge della città. Ma la sua parola inascoltata diventa eco del tempo e diviene passato e futuro, diviene presente. E deve diventare alba e tramonto, farsi pane e vino, entrare nelle viscere della terra e nostre affinché non sia vana. E che dalla forza della sua parola si attinga, come ad un calice, per non avere paura di esprimere le proprie idee e di esercitare la propria individualità, affermando la propria personalità.
E Antigone, quel pomeriggio di torrida estate, ha preso le sembianze del vento, è diventata pietra, è diventata carne, è diventata voce. È diventata presenza, palpabile, visibile, forza irresistibile che ha scosso quel pubblico di cui facevamo parte, la mia amica ed io, rapite dalla storia del suo coraggio.
Qual è il profumo di Antigone? Ha chiesto infine l’attrice.
È quello della libertà.
Eva Bonitatibus
[1] Torre di Satriano a Tito (Pz)
[2] Antonella Iallorenzi
[3] Compagnia teatrale Petra